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Un pezzo di storia Augustana. La rivolta nel carcere del 1975 fra misteri e falsi Rivoluzionari.

Quante ombre e misteri intorno a vicende stranamente legate fra loro: la strategia della tensione, il sequestro De Mauro, i legami tra Verzotto e il famoso avvocato Guarrasi, le azioni di un terrorismo rosso vero ma spesso anche presunto che faceva girare nelle carceri siciliane documenti cifrati contro lo Stato Imperialista delle Multinazionali.. Come nel caso della rivolta di Augusta, otto uomini disperati con condanne pesantissime per rapine, sequestri di persona, tentati omicidi e omicidi. Tra essi anche un ergastolano. Furono ventuno ore di drammatica tensione, tra un tentativo di evasione fallito, una guardia carceraria gravemente ferita, le altre in mano ai rivoltosi, richieste di potenti auto per la fuga, e in mezzo farneticanti rivendicazioni politiche che trovarono sponda in una figura femminile allora emersa dalle maglie di movimenti libertari: Giuliana Cabrini. L'Italia l'aveva conosciuta per le “scandalose” lezioni di sesso che lei docente di latino e greco impartiva in un liceo di Novara e che raccontò nel libro “Alla mia prof con rabbia”, il suo “attimo fuggente”. Ad Augusta la chiama Marco Sansone, un detenuto di Vittoria, apparentemente alla testa dei rivoltosi. Da un corridoio del carcere che lambiva un passaggio in cui noi cronisti tentammo di avvicinarci il più possibile, lanciò il suo proclama elementare e ben poco politico: “Voglio 'a libbertà”. Nessuno ovviamente poté averla, ma la rivolta fu ammantata di intenti rivendicativi con l'arrivo di Giuliana Cabrini allora segretaria della “Lega socialista non violenta dei detenuti perseguitati dalla giustizia di regime”. Catapultata da Torino Caselle a Fontanarossa, la Cabrini convinse gli otto alla resa con la parola d'ordine: “Un rivoluzionario piange solo di gioia”. Una magia che bastò. E i ribelli ottennero solo di essere trasferiti in carceri più vicine alle loro famiglie. L'allarme era scattato alle 20 del primo giugno. Alcuni agenti di custodia erano stati presi in ostaggio dai detenuti. Si era sparsa la voce che fossero due e i detenuti ribelli quattro. Ben presto le cifre erano apparse in tutta la loro gravità: le guardie in ostaggio erano otto ed altrettanti i rivoltosi che si erano costituiti in due gruppi di quattro ciascuno. Del primo facevano parte Giovanni Paolo Ibba, 46 anni, torinese, condannato in Corte d'Assise a 28 anni per omicidio; Giovanni Lazzarino, di Teverola, in provincia di Caserta, 28 anni; Carlo Caponera (31) di Torre Gaetani (Frosinone), condannato a 26 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio volontario; Marcello Salerno (28), di Calabraro (Matera), ergastolo per omicidio volontario. Questi quattro avevano sequestrato solo due guardie: l'appuntato Antonino Carlozzo, 51 anni, nato a Caronia in provincia di Messina, e l'agente di custodia Salvatore Rinaldi, 27 anni, di Augusta. Tuttavia Carlo Caponera, nel fare irruzione in un ufficio della casa penale, s'era ferito all'avambraccio destro nel tentativo di rompere i vetri di una finestra che gli avrebbe aperto un varco per poter avviare una trattativa. O almeno così lui pensava. Gli andò perfino bene ché lo soccorse il tenente colonnello medico Luigi Cipolla della Marina Militare in quei giorni su una unità ormeggiata presso il porto di Augusta. Molto più temibile il secondo gruppo di cui facevano parte Giuseppe Sansone, 27 anni, di Vittoria, un cumulo di condanne per estorsione e rapine da scontare fino al 1994; Agrippino Costo, (33) di Mineo, condannato a tre anni e sei mesi per furto di opere d'arte; Roberto Maurini (36), di Teramo, fine pena nel 1982, per tentato omicidio del proprio capo ufficio; Gianfranco Mayer (33), nato a Cocollo del Cencio in provincia di Vicenza, condannato per omicidio volontario da scontare fino al 1996. Con un'azione fulminea erano riusciti a bloccare sei uomini: gli appuntati Gaetano Patrì, di 47 anni, nato a Mirabella Imbraccari; l'appuntato Salvatore La Bianca (56), di Bagheria; Giuseppe Mericio (41), nato a Locri; e gli agenti Carmelo Paci (25), di Campobello di Licata; Antonio Altieri (28) di Pratola Serra (Avellino); Giovanni Novello (23), di Cutigliano (Pistoia). Con gli ostaggi si erano asserragliati nel terzo braccio della casa penale in una posizione di difficile accesso. Ma che cosa si proponevano i rivoltosi? Due obiettivi completamente differenti e distanti, morbidi i primi, drastici e radicali i secondi. Al primo gruppo, infatti, bastava essere trasferiti in carceri più vicine alle loro famiglie o alle sedi processuali. Se n'era fatto portavoce Salerno il quale poneva come condizione per il rilascio degli ostaggi il trasferimento alla casa penale di Massa Carrara. Di tutt'altra natura e già in partenza inaccettabili le condizioni poste dal secondo gruppo. Giuseppe Sansone chiede la libertà per sé ed i suoi compagni, una vettura di grossa cilindrata (una Mercedes o un furgone posteggiato davanti al portone del carcere), un salvacondotto che assicuri a tutti l'impunità. L'arduo compito di trattare tocca al sostituto procuratore Brancatelli, poi seguito dal procuratore Salvatore Astuto che temporeggia, e per guadagnare ore preziose allarga le braccia: proposte simili può valutarle solo il Procuratore Generale di Catania, dottor Ugo Buscemi che arriverà ad Augusta nel corso della notte. Ma Sansone non abbocca o per lo meno alza la minaccia: se entro l'una non avrà ottenuto la libertà, uno degli ostaggi verrà ucciso e gli altri faranno la stessa fine, ad intervalli di un'ora. E a suo modo mantiene questo ricatto. All'una in punto l'appuntato Giuseppe Mericio viene accoltellato alle spalle ed al petto. La tensione è altissima. Per riuscire a soccorrerlo i carabinieri si devono piegare a Sansone, che ha il pieno controllo dell'area. Fuori l'ambulanza ha già il motore acceso, i militari ottengono le chiavi che gli vengono lanciate da una finestrella, entrano e in un corridoio trovano Mericio rantolante. L'appuntato è gravissimo, sono minuti preziosi, in ospedale il chirurgo, professor Basile, lo attende in sala operatoria. Lo salverà. Intanto Sansone prova a mettere in pratica la sua strategia, richiama al telefono il procuratore Salvatore Astuto e lo informa che l'ostaggio non è stato ucciso solo “per dare una prova di buona volontà”, ma il suo gruppo è deciso ad andare fino in fondo, e al secondo ostaggio andrà peggio. Contemporaneamente nei locali della direzione del carcere si riuniscono il colonnello Antonino Cacciuttolo, comandante della Legione carabinieri di Messina, il Questore di Siracusa, Lo Presti, ufficiali dei carabinieri e funzionari della pubblica sicurezza. Si mette a punto la controffensiva, senonché – in attesa di parlare con il suo avvocato - Sansone alza la posta: invece di una vettura di grossa cilindrata, una Mercedes o un furgone, chiede che davanti all'ingresso del carcere gli siano messe a disposizione due Alfa Romeo 2000, con i serbatoi pieni. . Finalmente arrivano il procuratore generale Buscemi e gli avvocati di Sansone, Antonio Cartia e Walter Bramante. Entrano nel braccio della rivolta e vi rimangono cinque minuti. Quando ne escono, Cartia ha il viso tirato, è sconvolto, in mano una cassetta registrata contenente le richieste dei ribelli e i disperati appelli degli ostaggi. Voci impaurite, terrorizzate dal pericolo che incombe su di loro. Il nastro viene ascoltato su un registratore a cassetta e amplificato perché tutti possano sentire. Dall'altoparlante escono gli appelli disperati degli ostaggi, ripetuti quasi sotto dettatura. L'appuntato Patri: . Carmelo Paci: . Giovanni Novello: . Antonio Alfieri: . L'appuntato Salvatore La Bianca, il più anziano degli ostaggi: < Faccio un appello. Aiuto. Da circa 28 anni presto servizio nelle carceri. Mai passato un momento così triste. Prendete un provvedimento al più presto. Faccio appello al direttore generale, al Procuratore Generale, a tutti i superiori. Grazie. Fate presto. Non scherzano. Sono disposti a commettere qualsiasi cosa>. Queste le voci della terza sezione interna, quella più lontana dai locali della direzione. Pochi metri invece separano i cronistio dal primo gruppo di detenuti. Freddi, tranquilli, in mano i lunghi coltelli che essi stessi si sono fabbricati staccando le assi dei letti. Alle 2.50 si affaccia Marcello Salerno. Ha gli occhi chiari ed il volto fermo: il trambusto che indovina sembra non disturbarlo. Ha sempre negato di avere ucciso. <È giornalista?> mi chiede. . Che cosa chiedete? . Poco prima un agente gli chiede di mostrare gli ostaggi. . L'agente insiste: uno degli ostaggi. Carlozzo urla: . La rivolta non è arrivata improvvisa. , ammette il colonnello Cacciuttolo. Il comandante della Legione è stato tra gli ultimi ad arrivare. E più volte nell'intervallo tra una trattativa e l'altra, tra un vertice e l'altro, non ha potuto fare a meno di celare il suo malumore. Le cose non andavano per il verso giusto e più di un ufficiale premeva per la soluzione forte. . Quel che si comprende è che magistrati e forze dell'ordine sono divisi sulla strategia da adottare. Di fatto ai carabinieri viene impedita un'azione di forza mentre all'esterno del carcere affluiscono mezzi e rinforzi da tutta la Sicilia: i militari armati di mitra vengono schierati lungo le mura del carcere, ci sono autoblindo, fotoelettriche, unità cinofile. Alle sette e mezzo del mattino il carcere è pienamente nelle loro mani. A quasi dodici ore dall'inizio della rivolta non è successo quasi nulla, se non temere un bagno di sangue. Anche la minaccia - “uccideremo un ostaggio ogni ora <” - è rimasta solo tale. Qualcuno comincia a parlare di moventi politici – nappisti, brigate rosse – ma il colonnello Cacciuttolo mette a tacere ogni incauta ipotesi . Fuori qualche agente di custodia getta acqua sul fuoco degli entusiasmi per quello che fino ad ieri era definito carcere modello. . Eppure la svolta è dietro l'angolo. Intanto Ibbà, Lazzarino e Salerno, cioè i rivoltosi del primo gruppo, hanno accettato, senza porre altre condizioni, il trasferimento nelle carceri di Massa Carrara. Hanno chiesto, però, che Caponero, trasferito a Noto, dopo la medicazione in ospedale venga aggregato a loro. Poco dopo le 8 hanno lasciato liberi gli ostaggi, le due guardie Antonino Carlazzo e Salvatore Rinaldi. Il secondo gruppo che fa capo a Giuseppe Sansone ha perduto un uomo. Agrippino Costa, infatti, dopo il ferimento dell'agente ha fatto sapere di dissociarsi dall'iniziativa dei suoi compagni forse perché teme di aggravare la sua posizione giudiziaria (deve scontare infatti una pena di tre anni e mezzo). Immediatamente anche lui è stato preso in ostaggio. Tuttavia passano ancora molte ore. Si attende l'arrivo di Giuliana Cabrini. Alle 17,30 l'angoscia è finita. In meno di 24 ore la rivolta si è risolta in modo quasi grottesco rispetto alla drammaticità ed alla violenza con cui si era aperta: con il rilascio degli ostaggi senza contropartita reale e con una conferenza stampa dei rivoltosi dentro il carcere, di cui erano ancora totalmente padroni. Quasi una messa in scena con il copione obbligato della lotta per i diritti civili. Era davvero bizzarro e contraddittorio che dopo una lunga notte di tensione, di paure, di ultimatum, venissero a dire che la liberà a tutti i costi era un falso obiettivo e che quello vero era fare di questa occasione una manifestazione politica per porre l'attenzione sui diritti dei detenuti. Com'era stata possibile una così clamorosa marcia indietro? Il fatto è che molte cose non hanno funzionato in questa storia di Augusta. Da una parte detenuti arrendevoli e divisi fra loro, dall'altra magistrati e carabinieri per molto tempo confusi e in disaccordo sul da fare. È quasi per un caso che non sia finita in tragedia. In realtà i “ribelli” hanno ottenuto tutto ciò che volevano tranne la libertà. Il primo gruppo ha presto accettato il solo trasferimento, il secondo ha ripiegato su una serie di azioni dimostrative. D'altronde – con una perquisizione globale fatta già due giorni prima – si sapeva che in carcere non vi erano né armi né bombe, ma solo alcuni coltelli, anche se sono bastati questi a fare una vittima e a tenere alta la minaccia di azioni ancora più violente. Risolutivo è stato l'intervento della madre di Sansone che lo ha convinto a desistere. Poi a mettere un cappello politico a questa singolare rivolta, conclusasi con il trasferimento anche di questi quattro detenuti nelle sedi da ciascuno indicate, è venuto l'intervento di Giuliana Cabrini. Infine in poche ore è avvenuto ad Augusta quanto non si era mai verificato nelle carceri italiane. Libero accesso alle donne, due madri ed una dirigente politica, che ci sono rimaste per un paio d'ore a gestire l'epilogo della “sommossa”: alle 17,45 del 2 giugno 1975 tutto finito tra le lacrime e i baci di colleghi e parenti degli ostaggi liberati.

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